I – Questa gestione dello stress, immagino che si applichi bene dentro le mura del carcere, rinchiusi, senza libertà. Come sei giunto ad insegnare ai carcerati?
P – Nessuno è immune dal trascorrere del tempo in carcere. Questo è importante dirlo. Benché non sia auspicabile, può accadere a tutti. Essere privati della libertà è terribile, e non te ne rendi conto finchè non ci sei veramente stato in quei posti. Era da molto tempo che pensavo che l’Aikido potesse giocare un ruolo importante per questa gente in difficoltà. Lo credevo già a 20 anni, ma ero troppo giovane per andarci, sarebbe stato un errore in quel momento. Qualche anno più tardi, con più maturità e anche più tecnica ho sentito che era arrivato il momento giusto. Ho a che fare con dei praticanti molto ricettivi. Capisci molto in fretta che l’efficacia della tecnica passa in secondo piano, che ci sono altri mezzi molto più gravemente efficaci. Per loro esser sul tatami e praticare è un modo di provare una libertà che non hanno più nella vita. Li aiuta a dominare lo stress dell’incarcerazione, in un universo dove regna la legge del più forte. Lasciare il loro corpo esprimersi liberamente con creatività, ecco cosa è essenziale. È li che l’Aikido può intervenire per aiutarli a controllare lo stress. Nel 1999 alla richiesta dell’amministrazione penitenziaria, siamo andati la in cinque, tra cui Patrick Benezi che aveva avuto contatti nel posto, per fare una dimostrazione seguita da un dibattito alla centrale di Poissy. Sono rimasti tutti stupiti, amministratori e carcerati. È iniziato così, hanno chiesto degli stage, ero disponibile e sono andato con Bruno Gonzales. All’inizio eravamo stretti in una saletta da boxe, c’era un’atmosfera speciale, era il luogo ideale, per loro e per noi, e ci siamo andati per quattro giorni consecutivi. Dopodiché l’amministrazione ci ha chiesto di tenere un corso vero e proprio per i detenuti. Ho accettato questa sfida. Ho ricevuto un sacco di proposte anche da altri istituti. Ma attenzione, non bisogna fare certi tipi di discorsi, come :<<va bene , distendetevi, liberatevi, ecc.>>. Questo richiede che si resti molto concentrati per evitare di commettere certi errori, ma senza risultarne bloccati. Il mondo carcerario ha le sue regole, il contatto fisico ha un senso molto particolare. Ad esempio il basket è vietato, per evitare che gli scontri fisici degenerino. A questo punto, insegnare Aikido, una disciplina particolarmente tattile, richiede degli adattamenti. Per quel che mi riguarda impronto tutto sul concetto di scambio. È una bellissima esperienza umana, interamente basata sulla condivisione. Da non molto cerco anche di insegnare armi, cosa inimmaginabile un tempo. Parlare del lavoro con le armi, ha un significato ben preciso in prigione eppure siamo riusciti ad inserire ken e tanto e tutto è andato bene. È qualcosa di notevole in un gruppo che si autogestisce con una fiducia reciproca. Non ho mai avuto la sensazione di fare un corso per detenuti ma semplicemente a degli aikidoka, con un percorso particolare ovviamente, ma che non impedisce di generare armonia.
I – Immagino che con questo tipo di allievi, tu abbia un ritorno molto considerevole.
P – Può sembrare strano, ma ho trovato delle qualità umane che difficilmente ho trovato altrove, in contesti … normali. Mi rendo conto fino a che punto l’umanità sia complessa. Non son là solo per insegnare, ma cerco di comprendere. Molte questioni restano ancora senza risposta. Come può una persona commettere cose gravissime contro qualcuno, ed allo stesso tempo avere le migliori intenzioni verso qualcun altro? Non è semplice. Nessuno è il peggiore, come nessuno è il migliore. Sul tatami non sento alcune pressioni dall’ambiente esterno. Faccio un corso di Aikido come potrei farlo da qualsiasi altra parte del mondo. Si potrebbe pensare che si instauri una certa familiarità, che porti a questi corsi lo stesso calore umano, la stessa attenzione e lo stesso rispetto. Nel mio primo corso, ho voluto mostrare con ai hammi katate dori , che quello che potrebbe passare per un attacco, in realtà è uno scambio. A tal proposito devo dire che ho avuto un ritorno eccezionale.
I – Queste tecniche di gestione dello stress, possono essere applicate anche altrove?
P – Certamente. In ambiente ospedaliero per esempio, nella formazione del personale che deve confrontarsi con lo stress dei casi urgenti, senza addentrarsi troppo nel tecnico, ma sui principi fondamentali dell’Aikido. Il messaggio è molto efficace, molto ben ricevuto e compreso,. Non si tratta di farne dei campioni di Aikido in venti mosse, ma di fargli comprendere che non serve a nulla restare bloccati, ma che devono trovare la soluzione per arrivare all’obbiettivo prefissato. È la che si applicano i principi fondamentali dell’aikido, allo stesso modo che nella preparazione fisica e mentale degli sportivi di alto livello.
I – Quali sono le tue ambizioni oggi?
P – Innanzitutto, continuare a praticare, e contemporaneamente insegnare e trasmettere la ricchezza dell’Aikido. In oltre, con un amico neurologo e fisioterapista, ho sviluppato un concetto innovativo per la preparazione mentale, fisica e fisiologica, in cui l’Aikido ha un ruolo importante. Abbiamo lavorato sulla neuro-fisiologia in relazione all’ascolto del corpo. In pratica, degli esercizi corporali adatti ad avere effetti immediati sulla psiche dell’atleta. Stiamo lavorando anche sull’aspetto fisico, anche con il metodo del rilassamento muscolare progressivo di Jacobson, che ha degli effetti positivi sul corpo insospettabili. Per arrivare là, mi applico il più possibile nella mia pratica dell’Aikido e nella mia personale esperienza sportiva, per ottimizzare ogni intervento in funzione di ciascun individuo. Stiamo facendo esperienza. Cerco anche di spendere il mio tempo in un progetto con la P.P.J (protezione giudiziaria dei giovani) per richiesta di un amico karateka, Alain Truvé, cofondatore dell’O.N.G. (organizzazione non governativa) Athlètes du Monde, ed il cui presidente è Jean Galfione. Si tratta di ri-socializzare i giovani in difficoltà, disorientati, per la pratica delle arti marziali. Il PPJ, che dipende dal ministero della giustizia, è molto sensibile a questo tipo di attività. Abbiamo bisogno di persone in tutti i settori.
I – Come ti definisci?
P – Sono innanzitutto un aikidoka, poi un insegnante. Se non potessi più allenarmi, credo che smetterei anche di insegnare. Per me è importante anche essere un uke, fare entrambi i ruoli.
Ho 33 anni, son 5° dan da poco, sono giovane e non voglio giocare al professorino. Ho bisogno di sentire di essere davvero ad un livello in cui controllo il mio equilibrio, sento che ho ancora moltissimo da apprendere. Quando faccio un corso mi voglio mettere all’altezza dei miei allievi. È questo ciò che m’importa, donare il meglio di me stesso, sul tatami come fuori dal dojo.
articolo apparso sul giornale “Aikido Magazine” – anno 2006